Forse non tutti sanno che ogni anno nel mondo muoiono venticinque lingue: un fenomeno di dimensioni spaventose. Oggi le lingue vive sono circa cinquemila; nel giro di cento anni, se niente interverrà a modificare il corso delle cose, la metà di queste cinquemila lingue sarà morta. Alla fine del ventunesimo secolo, dunque, solo duemilacinquecento sopravviveranno, e forse saranno ancor meno perché il ritmo della loro scomparsa potrebbe diventare sempre più rapido.
È un olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale. È inutile, o illusorio, volervi richiamare l’attenzione? Io credo di no. Ho iniziato a scrivere questo libro con la speranza, probabilmente ingenua, di contribuire a far nascere la consapevolezza che è un dovere impedire alle culture umane di sprofondare nell’oblio. E la lingua è una delle manifestazioni più alte e al tempo stesso più banalmente quotidiane della cultura. La lingua è nient’altro che ciò che gli uomini hanno di più umano. Difenderla significa preservare la nostra specie, che dalle sue diverse lingue è stata profondamente modificata.
Le lingue, come le civiltà, sono mortali, e l’abisso della storia è abbastanza profondo per contenerle tutte. Eppure, al nostro sguardo di creature finite, le lingue riservano una sorpresa insolita ed esaltante: la possibilità di rinascere. Per gli esseri umani la morte dirige la vita, la orienta, per fame un destino. Certo, le lingue che tornano a vivere sono assai rare. Ma ce ne sono. Almeno in un caso, l’ebraico, ciò è senz’ombra di dubbio vero. E altre lingue minacciate di morte si ostinano a vivere, a sfidare l’ineluttabile, fronteggiando ogni sorta di pericoli.